Dio attraverso le parole di Isacco benedice l’opportunista, l’ambizioso e lo spregiudicato. Benedice Giacobbe che approfitta disgustosamente della debolezza fisica del padre.
Dio si mischia, dunque, con la debolezza e la povertà di Giacobbe che è la nostra debolezza, che è la nostra povertà.
Come hai potuto accorgerti, fin dall’inizio il racconto ti imbroglia inducendoti a una posizione alta, di giudice. Guardi e disprezzi la veemenza, l’istintività di Esaù che si perde per un po’ di fame e vende la sua fede, la sua appartenenza al disegno del Dio adorato dal padre Isacco: si perde per un nulla, una minestra di lenticchie.
Il racconto vuole facilitare il tuo ruolo di giudice e, condizionandoti, ti suggerisce il commento amaro: “A tal punto Esaù aveva disprezzato la primogenitura”.
Ti ha messo a tuo agio perché non vuole che tu parteggi subito per Esaù; non vuole che tu incautamente sommerga Giacobbe nel tuo disprezzo soffocando, così, la sua presenza che invece deve inquietarti perché è forse, l’inquietudine, il sentimento che il brano intende suggerirti.
Scorri, allora, le righe e l’inganno di Giacobbe si fa sempre più disgustoso, in te inizia a crescere la voglia di prendere le distanze da quel personaggio e ti chiedi come Dio possa accettare e corrispondere alla sua bassezza, al suo calcolo che calpesta i sentimenti del fratello e la debolezza del Padre.
Il racconto vuole questo, vuole la tua domanda perché sarà quella domanda a farti scendere dentro la storia. Senza accorgerti sei scivolato dal ruolo di giudice a quello di personaggio perché sei entrato nel racconto e, lì dentro, la tua prospettiva cambia, ti accorgi, personaggio fra i personaggi, di portare in te tutti i loro tratti: la leggerezza di Esaù, l’ambizione e la spregiudicatezza di Giacobbe.
Scendendo e confondendoti con loro, apprendi che Dio non vuole perdere la sua partita e si mischia e lotta con l’uomo così come è; ti accorgi che Dio come condizione per impegnarsi non attende di trovare un ideale di uomo che non esiste nella realtà. Dio inizia il suo combattimento partendo dalla realtà, dalla tua realtà e non intende perdere, cioè non si dichiarerà mai sconfitto perché il suo disegno di salvezza sulla nostra storia non fallisce.
Dio non si spaventa del buio, dell’intricato e contorto, del contraddittorio che c’è dentro il nostro desiderio di Lui. Non si spaventa della luce e della notte che si intrecciano e sovrappongono nel nostro cuore persino quando il nostro cuore sa ripetere a Dio le parole: “chi sono io per te?”.
Se Dio non si spaventa non devi avere paura neppure tu della tua fragilità, della tua instabilità e contraddittorietà perché è lì che Dio ti cerca, che cerca te, cerca l’uomo, cerca la donna che sei e non un’altra cosa o un miraggio.
Così Giacobbe è scelto, ma è scelto perché lui si fa scegliere e lui si fa scegliere scavalcando il fratello maggiore. Fin dal grembo della madre c’è lotta fra i due fratelli che sono segnati da destini diversi così come diverse sono le loro scelte di vita una volta fattisi adulti.
Esaù si sostiene con la caccia, lui è “l’uomo della steppa”, Giacobbe invece è l’uomo che coltiva, che alleva, è l’uomo “tranquillo che dimorava sotto la tenda”.
In Esaù, il cacciatore, cresceranno l’intuizione, la capacità di cogliere l’attimo, il coraggio, lo scatto della scelta che spesso matura nella velocità del lampo.
Esaù è abituato ad osservare la preda, deve vederla, sa anche attendere, ma quando è il momento, quando l’intuizione lo coglie non attende, non può attendere perché è la legge della caccia, quando è fatta per vivere.
Quando l’occhio e il pensiero diventano molla che scatta e corsa che incalza si va ed è forse questo scatto che guida la sua scelta quando, tornato stanco e a mani vuote dalla caccia, chiede al fratello un piatto di lenticchie e nella foga di ottenerlo si trova forse inconsapevolmente a disprezzare la promessa di Dio.
Probabilmente non è disprezzo, è quello scatto della caccia, è l’abitudine alla realtà cresciuta fra attese e imboscate che lo porta a fissare solo la preda e in quel frangente la preda è il piatto di lenticchie cucinato di Giacobbe, mentre il resto: la resistenza opposta dal fratello, lo scambio proposto, sono solo l’ostacolo che divide dalla preda e il cacciatore è abituato a saltare via ciò che impedisce la cattura, la conquista.
Giacobbe finge di resistere, ha un piano, vuole alzare la posta, ma Esaù, il cacciatore, non attende, non pensa, ormai ha fiutato e puntato la preda, è scattata l’intuizione non può fermare lo scatto e accetta un patto stupido che non sta a loro stabilire.
Giacobbe, invece, l’uomo della tenda è l’uomo che ha tempo, non gli occorre lo scatto e la velocità nel cogliere l’attimo. Le bestie dell’allevamento brucano nella calma del tempo che scorre e il seme riposa attendendo la stagione.
Giacobbe ha tempo, può srotolare il suo pensiero nello scorrere del tempo. I suoi progetti hanno il tempo per potersi realizzare e lui sa aspettare e quando agisce o parla, va per gradi perché progettando ha dato una direzione alle cose che dice e che fa.
Rimugina di quelle promesse che il nonno Abramo diede al padre Isacco e sa che non sono per lui, il primogenito è il fratello, è suo il diritto ed è lui ad essere preferito dal padre, mentre a lui, Giacobbe, tocca la predilezione della madre: “Isacco prediligeva Esaù, perché la cacciagione era di suo gusto, mentre Rebecca prediligeva Giacobbe”.
Ma perché non poter avere? Sembra ritornare il frutto del giadino dell’Eden che “era gradito agli occhi e desiderabile” (gen 3,6).
Le promesse di Dio...! Quello di Giacobbe è desiderio di Dio?
Può esserci desiderio di Dio quando lo si invoca a garanzia di un patto scellerato? “Giacobbe disse: -Vendimi subito la tua primogenitura-. 32Rispose Esaù: -Ecco sto morendo: a che mi serve allora la primogenitura?-. 33Giacobbe allora disse: -Giuramelo subito. Quegli lo giurò e vendette la primogenitura a Giacobbe”.
Può esserci desiderio di Dio quando è usato per mascherare l’inganno? “Isacco disse al figlio [Isacco che, approfittando della cecità del padre si era camuffato in modo da essere scambiato per Esaù]: -Come hai fatto presto a trovarla [la preda cacciata e servita cucinata], figlio mio!-. Rispose: -Il Signore me l’ha fatta capitare davanti.-”.
Quello che muove Giacobbe è il potere, il potere che nasce dal possesso. Se le promesse sono potere, che si abbiano e se il possederle vuol dire inganno, tradimento e sofferenza per gli altri, che sia.
Giacobbe nutre questa ambizione e non ha ripensamenti, quando l’assale il dubbio è solo dettato dal timore di essere scoperto; Giacobbe non ha scrupoli perché non sa, lui non sa di sé, non si conosce. Si vede, si sente, si ascolta, vive, ma non si conosce.
Dopo il dolore che il suo agire ha procurato al padre e al fratello e che il testo ha saputo esprimere con tanta efficacia, si arriva, si deve arrivare al grande viaggio.
Il depositario indegno delle promesse deve arrivare a trovarsi e per trovarsi deve lasciare. E’ la paura della violenza covata dal fratello Esaù che lo spingono all’avventura e l’uomo che stava sotto la tenda deve conoscere la steppa, il deserto e uno strano sogno, ma siamo ormai alla seconda parte del nostro romanzo.